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Se fa bene qualcosa, sorride. Se non capisce, storce il naso. Se gli viene chiesto di prendere un pupazzo, l’afferra… e, se sbaglia, al tentativo successivo si corregge fin quando ci riesce, perché è progettato per imparare.
iCub è un cucciolo di robot, alto 1,04 metri e con un peso di circa 25 kg, nato una decina di anni fa da un team di ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, con caratteristiche ritenute fino ad allora impensabili per un automa.
È infatti l’umanoide più completo sulla faccia della Terra: ha mani di metallo, muscoli ad azionamento elettrico, due telecamere per occhi, due microfoni per orecchie, uno speaker al posto della bocca, la possibilità di comunicare con le espressioni del volto e perfino una pelle artificiale.
Un progetto avanzato e a lungo termine, con importanti ricadute tecnologiche e, soprattutto, un ambizioso obiettivo scientifico: simulare un bambino di pochi anni di vita per scoprire qualcosa di più su come siamo fatti e su come funziona il nostro cervello.
Il suo nome, iCub, ha due fonti di ispirazione.
La “i” viene da I, robot (“Io, robot”), la raccolta di racconti di fantascienza scritta da Isaac Asimov ormai più di 50 anni fa; “cub” deriva invece dal cuccioli (mancub) descritto da Rudyard Kipling nel suo Libro della Giungla.
A battezzarlo così è stato Giorgio Metta, l’ingegnere robotico che l’ha ideato insieme al collega Giulio Sandini, un veterano del settore.
Nel 2004, prima ancora che nascesse l’IIT, l’idea è diventata un progetto europeo, che si è poi concretizzata nel corso degli anni.
200: sono i ricercatori che partecipano al progetto iCub nel mondo.
I primi prototipi di robot umanoidi erano molto diversi da quello attuale. Avevano soltanto una telecamera fissa, alla quale fu aggiunta la capacità di movimento. Poi sono arrivati i primi esemplari dotati di due occhi e di un braccio meccanico, seguiti da modelli sempre più complessi, fino alla versione attuale di iCub. Un concentrato di tecnologie d’avanguardia
Tra tutti i componenti del robot, uno dei più importanti è la mano. Secondo le teorie attuali, infatti, le facoltà cognitive umane più elevate derivano dalla nostra capacità di usare le mani: nel corso dell’evoluzione è stato proprio l’uso della mano a consentire lo sviluppo dell’intelligenza grazie alla possibilità che ci offriva di interagire con l’ambiente afferrando gli oggetti e manipolandoli.
Un’altra eccellenza di iCub è la pelle, che ricopre gli arti e il torso ed è – ad oggi – costituita da 5 mila sensori di tipo capacitivo simili a quelli dei touch screen di smartphone e tablet.
Soprattutto, è la combinazione tra capacità motorie, sensoriali e computazionali che rende questo robot unico, una piattaforma ideale per lo studio dell’intelligenza.
Che cosa so fare
Oggi iCub è già in grado di fare molte cose che fa un bambino.
Per esempio, dopo aver “imparato” a gattonare nel 2010, è capace di tenersi in equilibrio (capacità che richiede molta energia anche a un essere umano, perché la posizione eretta è instabile per natura) e anche di camminare, seppur lentamente.
Ci sono altri robot che camminano più velocemente di lui, ma iCub è più completo e può compiere anche altre azioni. Per esempio, è in grado di “capire” semplici comandi vocali ed esprimere emozioni (gioia, disappunto, sorpresa) verso i suoi interlocutori.
Ovviamente non si tratta di vere emozioni, ma di espressioni facciali simulate per mezzo di luci, che però aiutano a migliorare l’interazione tra umani e robot, a farci sentire più a nostro agio con lui.
iCub sa inoltre parlare, vedere, riconoscere e afferrare gli oggetti. E, soprattutto, imparare dagli errori. La prima volta che prova ad afferrare qualcosa, infatti, può sbagliare; ma poi si corregge e impara anche a dosare la forza in modo opportuno.
Un’ulteriore capacità del robot – resa possibile dall’uso combinato dei dati sensoriali forniti dalle telecamere e dalla pelle artificiale – è quella di cercare di evitare il contatto con gli esseri umani.
Questo per evitare che, anche accidentalmente, possa fare male all’uomo: iCub, in altre parole, è costruito per rispettare, almeno in parte, la prima legge della robotica di Asimov.
Capacità sensoriali, capacità motorie, un’elevata potenza di calcolo…
iCub ha dunque tutti gli ingredienti essenziali che – in base alle scoperte delle neuroscienze negli ultimi decenni – sono a fondamento dell’intelligenza umana.
Una delle scoperte che ha rivoluzionato le neuroscienze negli ultimi anni – e che ha visto Luciano Fadiga protagonista, in un gruppo dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti – è quella dei neuroni-specchio, cellule nervose che si attivano sia quando eseguiamo un movimento, sia quando lo vediamo compiere da altri.
Sono le cellule, insomma, alla base dell’apprendimento e dell’empatia, cioè della nostra capacità di “metterci nei panni” degli altri e di comprenderne gli stati d’animo.
250.000 euro, il costo necessario per costruire un iCub
iCub ha però un cervello in silicio, che per funzionare non può contare su neuroni come i nostri.
La sua “mente”, dunque, deve essere costruita in maniera diversa.
Innanzitutto è suddivisa in moduli, che si occupano di compiti specifici: c’è un modulo per riconoscere gli oggetti, uno per estrarre l’informazione tattile e così via.
Le varie componenti sensoriali sono poi integrate tra loro, in modo da ricostruire un’esperienza e archiviarla in memoria per riutilizzarla in futuro.
In altre parole, perché iCub “capisca” che cos’è un oggetto che ha di fronte – se una palla o un pupazzo – non basta che ne faccia una scansione visiva, ma bisogna che lo tocchi, che qualcuno gli mostri come si afferra e come si usa.
Nella testa di iCub
Il cervello di iCub è costituito da 6 potenti computer a 4 e a 8 processori che, con un cavo, sono collegati alla testa del robot (all’interno della quale si trovano solo i chip necessari al controllo della macchina).
Il cavo di collegamento fornisce anche l’alimentazione, ma limita le prestazioni del robot-bambino, perché per esempio gli impedisce di correre – un compito, tra l’altro, al momento al di sopra delle sue possibilità. Gli ingegneri stanno già considerando la possibilità di un sistema di alimentazione a batterie e un collegamento Wi-Fi per lo scambio di dati con l’esterno.
Nel mondo esistono robot più performanti di iCub su compiti specifici. Alcuni, per esempio, sanno correre o superare ostacoli impegnativi, altri possono afferrare gli oggetti con maggior precisione.
iCub, però, come abbiamo detto, è il più completo di tutti e il più adatto a diventare un modello per lo studio della mente umana.
Anno dopo anno, i ricercatori migliorano le prestazioni dei sensori e dei circuiti di iCub, per renderlo sempre più simile a noi.
Fino a poco tempo fa, gli occhi del robot erano costituiti da “semplici” telecamere.
Oggi, invece, sono allo studio sensori ottici più avanzati, detti “neuromorfi” perché ispirati all’occhio umano.
Un’altra particolarità di iCub è il fatto di essere un progetto open source, come il sistema operativo Linux.
Ogni gruppo di ricerca che partecipa all’iniziativa può modificare iCub secondo le proprie esigenze, purché ne condivida i risultati con gli altri.
Il piccolo androide, di cui a Genova esistono 3 esemplari, infatti, ha 25 di fratellini sparsi nel mondo.
E il vantaggio, per i gruppi di ricerca che li usano, è evidente: il fatto di basare i differenti studi sullo stesso corpo meccanico permette di condividere più facilmente i risultati e quindi di progredire più velocemente nella ricerca.
Dove sono gli esemplari di iCub
Tutti i robot sono prodotti all’Istituto Italiano di Tecnologia, un centro di ricerca nato nel 2006 sulla collina di Morego, vicino Genova, nel quale lavorano 800 persone (più altre 400 dislocate in altre 10 sedi sul territorio nazionale), in gran parte ricercatori.
Non tutti gli scienziati e gli ingegneri dell’IIT lavorano su iCub.
L’iCub facility dedicata interamente allo sviluppo del robot impiega una cinquantina di persone. Ma, se si considerano tutte le ricerche correlate, prodotte anche da altri laboratori, si arriva a 500 persone.
Una delle parole d’ordine di questo progetto è interdisciplinarità: per affrontare un argomento complesso come l’intelligenza, è necessario che lavorino gomito a gomito ingegneri, informatici, psicologi e neuroscienziati.
iCub è nato come progetto a lungo termine di interesse puramente scientifico.
Non mancano, però, le applicazioni.
In campo medico gli studi sul movimento degli arti del robot si possono applicare alla riabilitazione di persone che, per esempio a causa di un ictus, sono rimaste paralizzate: in un certo senso, si può dire che il robot impara i movimenti dall’uomo, per tornare a insegnarli all’uomo. Sono attive in tal senso alcune collaborazioni tra l’IIT e alcune strutture ospedaliere.
Le ricadute tecnologiche della ricerca su iCub possono essere molte. Una delle finalità principali dell’IIT, infatti, è – attraverso l’innovazione tecnologica – stimolare lo sviluppo del territorio (al momento l’Istituto può vantare oltre un centinaio di progetti d’innovazione con le imprese, più di 270 domande di brevetto depositate e una decina di start-up).
Gli scienziati di Genova sono convinti che un giorno i loro umanoidi potranno entrare nelle case delle persone, contando anche sul fatto che il prezzo di produzione può diminuire sensibilmente grazie alla produzione di massa. Si sta studiando la possibilità, per esempio, che i robot siano utilizzati per l’assistenza agli anziani: potrebbero controllare lo stato di salute, l’assunzione di medicine e fornire assistenza.
Non bisogna infine dimenticare il progetto originale, cioè il fatto che iCub sia usato come modello per le neuroscienze.
In questi primi 10 anni iCub ha percorso molta strada.
Eppure, da un certo punto di vista, è appena arrivato al punto di partenza: servire da modello per gli studi sull’intelligenza.
Nei prossimi 10 anni il cucciolo potrà finalmente crescere, soprattutto da questo punto di vista.
La domanda che è naturale porsi, a questo punto, è la seguente: riuscirà mai il robot bambino a diventare intelligente come noi?
E, in tal caso, non potrebbe addirittura surclassarci? Che cosa succederà allora?
In realtà questo non potrà mai avvenire, per lo meno nell’ambito delle nostre possibilità attuali di previsione, perché un robot – come spiega Roberto Cingolani – ha ancora molto da imparare dall’uomo.