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Apriamo la nostra home page di Facebook e troviamo tutti i nostri amici invecchiati, cosa è successo? Sono stato in coma per trent’anni? Una strana epidemia? Un’apocalisse? Niente paura è solamente FaceApp, l’applicazione che nelle ultime settimane sta spopolando sui principali social network e che altera il nostro viso modificandolo.
Eppure l’incredibile successo sembra preoccupare gli Stati Uniti, ma l’allarmismo sembra fondato, perché anche gli esperti di privacy ci mettono in guardia sull’utilizzo dell’app.
FaceApp, l’applicazione che invecchia
Anche se ultimamente ha avuto un clamoroso successo grazie alla funzione invecchiamento, l’app non è solamente questo.
L’applicazione è stata realizzata da una compagnia russa, Wireless Lab, ed è disponibile per iOS e Android già dal Gennaio del 2017. Tuttavia la vera e propria challenge lanciata sui social, che ha invecchiato i volti di decine di vip e milioni di persone comuni, è decisamente più recente.
L’applicazione si avvale di un algoritmo di intelligenza artificiale in grado di ritoccare una fotografia rendendoci più giovani, più vecchi, più sorridenti o dell’altro sesso.
Lo stesso risultato potremmo ottenerlo con un complicato lavoro di Photoshop, ma occorrerebbero ore. Con FaceApp, invece, il risultato è istantaneo e incredibilmente realistico.
Nonostante gli incredibili risultati non possiamo dire che sia questa la ragione che l’ha resa virale. Non si sa perché una cosa diventi virale, lo diventa e basta. Ma una volta che qualcosa è sulla bocca di tutti si fa presto a trovarne pregi e difetti.
FaceApp è uscita più di due anni fa, eppure ha fatto successo ora, proprio in mezzo al tumulto generato da argomenti scottanti quali la privacy. E anche qui si alzano i dubbi se giocare con il proprio viso sia un bene o no.
L’allarme lanciato dagli Stati Uniti
A lanciare l’allarme sono stati gli Stati Uniti, certo il fatto che l’app provenga da un nemico di vecchia data non ha aiutato a tranquillizzare le acque. Eppure l’allarme non è poi così infondato.
Alcuni esponenti del governo degli Stati Uniti esortavano così i propri cittadini: “Cancellate FaceApp immediatamente, se l’avete già usata. È profondamente preoccupante che i dati personali dei cittadini Usa possano finire nelle mani di una potenza ostile straniera”.
L’appello sembra quasi ironico, un allarmismo da guerra fredda forse, eppure la potenza mondiale non è nuova a raggiri digitali, i quali hanno intaccato anche diverse elezioni.
Il problema è la privacy
Ma se l’appello americano sembra quasi surreale non lo è affatto quello lanciato dagli esperti di privacy. Ormai in molti si domandano che ne sia della propria privacy, magari senza capirne davvero il concetto fino in fondo, ma solo perché è diventata una “moda” ritenere che essa non esista più.
Così i milioni di utenti che hanno scaricato l’applicazione si domandano che fine facciano le proprie fotografie.
I regolamenti contenuti nella privacy policy di FaceApp sono fermi al 2017, che, d’altronde, è l’anno in cui è stata realizzata.
Ma che fine fanno le nostre foto? L’Unione Europea ritiene che un utente debba sapere cosa se ne fa l’azienda dei propri dati, per quanto tempo li conserva e dove vadano esattamente fuori dell’Unione Europea.
Ma anche se le leggi non sono aggiornate noi le abbiamo firmate. Quel noioso e lunghissimo testo che spuntiamo senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. E allora noi abbiamo dato il consenso affinché quelle leggi vengano applicate, nulla di più.
Che fine fanno le immagini di FaceApp?
Ma a che cosa esattamente abbiamo acconsentito? Le immagini di FaceApp rimbalzano prima in Russia e poi negli Stati Uniti, finendo in Database sconosciuti.
Cosa potrebbe succedere a quelle immagini nei database? “Paragoniamo l’intelligenza artificiale a un bambino che non conosce il mondo. Per sviluppare le potenzialità della rete neurale bisogna farle vedere tutto: le nuvole, la mucca, la mela, ecc. Si chiama ‘data annotation’, gli assistenti vocali lo fanno registrando la nostra voce, per esempio. Il database che viene creato poi può essere utilizzato per vari scopi”.
Spiega Francesco Capparelli, docente di cybersecurity. “Una carta d’identità rubata sul dark web vale tre euro e mezzo, niente. Sono i big data raccolti tramite strumenti come le app e i motori di ricerca che fanno girare l’economia. Oggi è l’egocentrismo che vince, e manca la consapevolezza tra gli utenti”.
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