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Il termine “deja-vu” venne coniato da Emilie Boirac, uno psicologo francese che lo utilizzò per la prima volta quando era ancora uno studente, nel suo saggio L’Avenir des sciences psychiques.
In psicologia viene classificato come paramnesia, ovvero come un ricordo che viene falsato dalla mente. Nello specifico si parla di falso riconoscimento: quando si ha una sovrapposizione di un presente normalmente percepito ed un ricordo erroneamente ripescato.
Comunemente si ritiene che il deja-vu sia un fenomeno molto comune in cui, a causa dello stress emotivo, ci confondiamo con i pensieri. Ma è davvero così? Alcuni recenti studi sembrano rivelare qualcosa di diverso.
La sensazione di deja-vu
Un deja-vu è un sentimento di familiarità che può riguardare qualsiasi cosa: volti, oggetti, parole, persino situazioni. A seconda del senso si dice deja vu (già visto), deja entendu (già sentito) e deja vecu (già vissuto). Può essere molto breve, meno di 10 secondi, o può durare anche fino a 30 secondi. Per questo motivo, quando abbiamo un deja-vu parliamo di sensazione: non si tratta solo di un’immagine o di un suono, ma di un mix di riconoscimento a vari livelli che perdura nel tempo.
Alcune persone credono che si tratti di un sogno che si avvera: una sorta di premonizione onirica. Considerata la natura del fenomeno e la mancanza di spiegazioni (ancora) di spiegazioni scientifiche salde, è infatti molto facile interpretarlo come qualcosa di paranormale.
Il deja-vu nella psicologia… fino ad oggi
Il fenomeno del deja-vu è da sempre molto diffuso: si stima che circa i 2/3 della popolazione mondiale abbia fatto quest’esperienza almeno una volta nella vita. Non c’è da stupirsi, quindi, che già dal 1800 ci si interessasse del fenomeno.
Persino Freud ne ha parlato nel suo Psicopatologia della vita quotidiana, 1901. Secondo lui si trattava di un traslitteramento dei propri desideri e delle proprie fantasie, inconsce e ignote, su un momento reale. Freud però riconduceva praticamente tutto agli impulsi repressi, quindi questa definizione non venne ripresa molto negli studi sul fenomeno.
Successivamente, infatti, la linea di pensiero più comune è diventata quella riguardante un errore tecnico del cervello nel gestire i vari tipi di memoria. I sistemi neurologici adibiti alla memoria a breve termine si sovrapporrebbero a quelli responsabili per la memoria a lungo termine. Si tratterebbe, in pratica, di una breve stato di epilessia.
In realtà ci sono diverse teorie, ma tutte girano intorno a questa anomalia del funzionamento del cervello. Non avendo trovato ancora una risposta univoca, gli studi continuano tutt’ora.
Gli studi con la realtà virtuale
Uno degli ultimi studi, e sicuramente più interessanti, è quello che ha coinvolto anche la realtà virtuale. Un gruppo di scienziati della Colorado State University ha voluto testare la teoria di Alan Brown secondo cui i deja-vu vengono innescati da un luogo o da una conversazione. Nello specifico, da una somiglianza tra un luogo presente ed uno diverso del passato.
Per innescare un deja-vu, quindi, hanno inserito i soggetti test in un ambiente virtuale ricreato con scene a loro familiari. Hanno aggiunto poi delle differenze che hanno fatto scattare il fenomeno.
Le ultime teorie
I vari studi su come indurre artificialmente un deja-vu hanno portato ad un’altra teoria molto interessante: non si tratterebbe di un malfunzionamento, ma di un test. Una ricerca nell’Università scozzese di Sant’Andrew, infatti, ha scansionato l’attività celebrale di 21 soggetti test nel parlare del loro deja-vu indotto durante lo studio. In tutti i soggetti le aree utilizzate erano quelle frontali del cervello, addette ai processi decisionali, e non l’ippocampo, responsabile dei ricordi.
Questo dato potrebbe suggerire che si tratti si un sistema di verifica dei ricordi da parte del cervello. Tale teoria si avvalora se pensiamo anche che la maggior parte dei deja-vu avvengono da adolescenti e, con il tempo, tendono a sparire. Ma sarà davvero questa la soluzione?